Tratto da Lutto proibito: il dolore taciuto dell'aborto
di Theresa Burke, Ph.D.
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Capitolo 3: La Proibizione del lutto
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Introduzione al Capitolo: Spesso
chi vive l'esperienza dell'interruzione di gravidanza si trova dopo
quell'episodio a dover affrontare una complessa serie di emozioni e ad
elaborare un lutto per l'esperienza traumatica avuta. Chi riesce a
rompere il silenzio e andare oltre la solitudine che protegge la
sofferenza che porta dentro, cercherà un'aiuto per risanare le
ferite collegate a quest'esperienza. Naturalmente il campo della salute
mentale è il luogo prediletto in cui cercare un tale
aiuto. La Dott.ssa Burke rivela quanto può essere
difficile trovare sia un semplice ascolto compassionevole sia un
professionista sensibile a questo disagio e in grado di aiutare ad
elaborare la sofferenza della persona che chiede un aiuto.
In breve, leggerete qui i casi reali dai quali la Dott.ssa Burke ha
imparato quanto è spesso "proibita" l'espressione del dolore
dopo l'esperienza dell'aborto volontario .
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I sessanta secondi di silenzio sembrarono ben più lunghi. Dianna
mi fissava, o forse, attraverso me, fissava quei pensieri o quei
ricordi che appartenevano soltanto a lei. Di fronte a quel silenzio
teso, compresi già quale fosse la risposta alla mia domanda. Ma
Dianna aveva bisogno di pronunciare la sua risposta a modo suo. Fu per
questo che restai seduta in silenzio, pronta ad aspettare venti minuti,
se necessario, che fosse lei la prima a parlare.
Dianna aveva sui 45 anni, vestita in modo formale e impeccabile. Era il
nostro primo incontro. Nel corso della nostra prima conversazione
telefonica, lamentò ansia, periodici attacchi di depressione e
difficoltà nelle relazioni personali, come testimoniato da tre
divorzi. Mi disse che non era riuscita a fare progressi con la sua
ex-psicoterapeuta e che voleva avere un colloquio con me per vedere se
tra noi potesse esserci un rapporto soddisfacente.
Tutto procedette come di norma durante la fase delle domande iniziali,
ma poi le chiesi: “ha mai avuto una perdita in gravidanza? Aborto
spontaneo, interruzione di gravidanza o l’esperienza di un
bambino nato morto?”
Passarono altri 30 secondi prima che Dianna iniziasse a parlare con una
cadenza lenta e attenta, che presto si trasformò in una domanda
reiterata. “Perché mi ha fatto questa domanda?
Perché? Sono andata da sette psicoterapeute negli ultimi dieci
anni. Nessuna di loro mi ha mai fatto questa domanda. Perché lei
me lo ha chiesto? Che cosa l’ha spinta a farmi questa
domanda?”
Notai che la mia domanda aveva generato in lei un senso di paranoia
momentanea. Dianna aveva paura che io potessi leggere troppo a fondo i
suoi segreti, soprattutto senza il suo permesso. Cercai di alleviare la
sua confusione e paura, spiegandole con tranquillità che si
trattava semplicemente di una domanda di routine, che facevo a tutte le
mie pazienti. Le spiegai che la perdita in gravidanza poteva essere
associata a una quantità indeterminata di emozioni irrisolte.
Secondo la mia esperienza, molti individui erano riusciti a fare enormi
progressi una volta ricevuto il sostegno nell’elaborazione del
lutto irrisolto, del senso di colpa o rabbia, collegati a perdite in
gravidanza precedenti.
Dopo un altro breve silenzio, il respiro di Dianna fuoriuscì
lentamente e il suo corpo ebbe un crollo. Le sue lacrime iniziarono a
fluire, mentre mi raccontava dell’aborto volontario avuto quasi
30 anni prima.
Con una semplice domanda, avevo aperto la porta che Dianna aveva avuto
paura di toccare. Le avevo dato il permesso di esprimere il suo dolore
che riguardava un’esperienza che i suoi ex-mariti, la sua
famiglia, i suoi amici e sette precedenti psicoterapeute non le avevano
consentito di condividere o per troppa ignoranza o per troppo timore.
Non appena ricevuta l’autorizzazione a elaborare il proprio
lutto, Dianna fece dei rapidi progressi nelle settimane che seguirono.
Tutto il suo contegno era stato trasformato. L’ultima volta che
la vidi, mi salutò con un sorriso e con un cenno della mano.
Aveva finalmente riscoperto il senso della libertà e della
speranza che le erano sfuggite per decenni.
IL LUTTO NORMALE
Il lutto è una risposta naturale e necessaria alla perdita.
È un riadattamento del proprio atteggiamento mentale e
delle proprie emozioni che deve verificarsi dopo ogni perdita sia essa
grande o piccola. Se si tratta di una grande perdita, come nel caso
della morte di un’intera famiglia, il lutto può essere
prolungato e invalidante. Se la perdita è minore, come ad
esempio la perdita di una decina di euro alla schedina del totocalcio,
di solito il dolore sarà lieve e passeggero se la persona che
vive questa piccola perdita è emotivamente equilibrata, matura
ed è abituata ad affrontare questo genere di dolore. Se tali
condizioni non vengono soddisfatte, persino una piccola perdita
può essere vissuta in modo devastante. Ad esempio, prendete un
bambino che piange e s’infuria perché non ha vinto al
Gioco dell’oca! Oppure tornate indietro col pensiero ai giorni o
persino ai mesi in cui eravate tristi e depressi perché il
vostro primo amore vi aveva rifiutato o peggio ancora, non si accorgeva
nemmeno di voi. Anche quando la vostra testa vi diceva di “non
pensarci più”, il vostro cuore impiegò molto tempo
per assecondare la vostra mente.
Attraverso tali esperienze, impariamo a elaborare il dolore. Alcune
persone riescono a gestire bene il dolore della perdita. Altre non ci
riescono. Inoltre, la capacità di elaborazione del lutto
può variare notevolmente da situazione a situazione.
Il lutto è più di una singola emozione. Può
includere sentimenti di perdita, confusione, solitudine, rabbia,
disperazione e altro ancora. Il dolore del lutto può rivelarsi
travolgente. Può penetrare e oscurare ogni angolo della propria
vita. Non può essere spento e acceso a comando. Non cessa in
modo automatico di sua propria iniziativa.
L’elaborazione del lutto implica l’affrontare la propria
perdita, ammettere la perdita, piangere la perdita, imparare a vivere
con la perdita e elaborare il dolore per trovare un senso o uno scopo
rinnovati oltre la perdita. Ciascuno di questi processi deve essere
portato a termine con successo, per poter risolvere il lutto. È
quello che gli psicoterapeuti definiscono “lavorare sul
lutto”. “Lavorare”, perché questo può
rivelarsi un processo laborioso che richiede tempo e sforzo. Richiede
un incredibile dispendio di energie a livello fisico, emotivo e
spirituale. Per elaborare le emozioni in modo sano, occorre affrontarle
in modo attivo.
Le persone equilibrate imparano a rispettare il dolore come uno degli
“insegnanti” più straordinari. Attraverso
l’esperienza del lutto, si può imparare molto su se
stessi, sugli altri e sulle grandi verità che riguardano lo
scopo e il senso della vita.
Dopo aver vissuto il dolore, alcune persone diventano motivate a voler
alleviare la sofferenza degli altri, per via della propria nuova
consapevolezza e compassione. Quando il dolore è associato
all’esperienza della morte, può spingere a riconsiderare
le nostre priorità. In questi e in altri modi,
l’elaborazione del lutto può portare a un periodo di
crescita personale e di rinnovamento.
LUTTO DELEGITTIMATO
Quando una persona sperimenta una tristezza segreta che non può
essere condivisa né affrontata, tale condizione viene definita
“lutto delegittimato”. Il termine
“delegittimato” sta a significare il mancato riconoscimento
e il rifiuto da parte degli altri della libertà o del permesso
di manifestare apertamente il proprio dolore. Ciò rende ancor
più difficile il completamento del processo di elaborazione del
lutto e può, non solo prolungare il dolore, ma addirittura
peggiorarlo. Questo dolore prolungato incapacitante (“impacted
grief”) può anche venire integrato nella propria
personalità e toccare ogni aspetto della vita.
Vi sono molte ragioni, sia interne che esterne, che portano le persone
a non sentirsi libere di vivere il proprio dolore. Ad esempio, una
bambina abusata sessualmente potrebbe avere timore di rivelare
l’abuso, per via della minaccia di dure punizioni se ne parlasse
con qualcuno. La bambina potrebbe anche avere paura di non essere
creduta, se lo raccontasse ad altri. O, anche se fosse convinta di
essere creduta, potrebbe comunque temere di essere considerata
“cattiva” o “sporca” perché ha
permesso che questa cosa le accadesse. Alternativamente è
possibile che la bambina possa semplicemente credere che quanto le
è accaduto sia normale. Che la vita delle altre persone sia come
la sua. Che deve soltanto imparare ad accettare la cosa. Tale
confusione, mista a sentimenti di paura, vergogna e senso di colpa,
può rendere molto difficile vivere apertamente la perdita della
propria innocenza sessuale, persino a decenni di distanza quando
l’abuso è ormai cessato.
Nei capitoli a seguire, esamineremo in che modo questa
“proibizione del lutto” può protrarre e peggiorare
le conseguenze emotive dell’aborto. Ma prima, nel restante
capitolo, analizzeremo alcune forze interne ed esterne che
contribuiscono a proibire la manifestazione del lutto legato
all’esperienza dell’aborto volontario.
OSTACOLI INTERNI CHE IMPEDISCONO L’ELABORAZIONE DEL LUTTO
Karen, una delle mie pazienti, ha descritto nel modo seguente il perché non parlava del suo aborto:
“Credo che le donne non parlino del proprio aborto perché
probabilmente quello è stato il momento più difficile
della loro vita. Io pensavo che se fossi riuscita a reprimere i miei
sentimenti, questi sarebbero scomparsi. Ritengo che le donne siano
convinte di non avere il permesso di sentirsi sconvolte a causa
dell’aborto. Noi non abbiamo alcun diritto di sentirci turbate,
perché è una cosa che abbiamo fatto noi a noi stesse.
Sono io che ho preso la decisione di abortire. Quindi, devo
soffrire”.
Gli impedimenti descritti da Karen sono molto comuni sia tra le donne
che tra gli uomini. Per prima cosa, c’è la tendenza
naturale a reprimere sentimenti negativi o a fuggire da essi. In molte
persone, la negazione può durare per un lungo periodo di tempo.
Anche quando le donne e gli uomini sono consapevoli di nutrire dei
sentimenti irrisolti riguardo a un aborto, solitamente si trovano ad
affrontare un cruciale conflitto che li porta a
“sfuggire-affrontare” il problema. Ciò significa che
sebbene vogliano liberarsi delle emozioni irrisolte, sono anche
consapevoli che affrontare tali emozioni sarà sconvolgente e
doloroso. Dal loro punto di vista, manifestare le proprie emozioni
è auspicabile e al tempo stesso indesiderato. Come conseguenza
di ciò, potrebbero oscillare tra comportamenti che li spingono a
sfuggire la questione e ad affrontarla. Per molti è come
rimandare un intervento al cuore necessario, finché non si
verifica un attacco cardiaco quasi fatale. L’indugio sembra
essere un amico, quando invece può contribuire a peggiorare
più che mai la salute.
In secondo luogo, Karen ha descritto la tendenza comune che molte donne
hanno a credere di non avere alcun diritto di piangere i loro aborti
passati. Tale prospettiva viene spesso inculcata o avvalorata nelle
strutture abortive e in quella sede, alle donne che piangono nella sala
postoperatoria viene spesso chiesto: “Perché piangi? Non
è quello che volevi?” Tramite queste domande, il personale
sanitario cerca di focalizzare l’attenzione della donna sulle
“cose positive” che in teoria dovrebbero scaturire dalla
decisione di aver abortito. Tuttavia, il messaggio percepito è:
“Non hai nessun diritto di piangere. Sapevi che cosa stavi
facendo”.
Terzo, i commenti di Karen riflettono l’opinione diffusa in base
alla quale ciascuno di noi dovrebbe imparare a sopportare da solo il
proprio dolore. Secondo questo ideale, una persona forte dovrebbe
essere in grado di affrontare i problemi della vita senza lamentarsi,
soprattutto quando le sue delusioni sono il risultato delle proprie
scelte. Nel tentativo di mostrarsi forti, molte donne e uomini soffrono
in silenzio. Ma, il risultato di ciò è che soffrono molto
più del necessario, perché si privano del conforto e del
sostegno che possono aiutarli a guarire più velocemente.
Per alcune donne un quarto impedimento alla guarigione è
costituito dal desiderio non riconosciuto di “rimediare”
all’aborto aggrappandosi al dolore e al senso di colpa. Alcune
donne e uomini credono erroneamente che l’unico modo che hanno
per onorare la memoria del figlio abortito sia continuare a far ardere
le fiamme del dolore e della colpa nei loro cuori.
Questo modo di vedere le cose non è né salutare né
produttivo. È per questo che un obiettivo del counseling
(assistenza psicologica) post-aborto è aiutare le donne e gli
uomini a capire come onorare la memoria del figlio abortito avendo
pensieri positivi; ad esempio, concentrandosi sul giorno in cui lo
raggiungeranno in cielo. La guarigione post-aborto non significa
imparare a dimenticare il proprio passato o il proprio figlio. Portare
a termine il processo di elaborazione del lutto in seguito a un aborto
significa invece imparare a comprendere il proprio passato, includendo
le scelte giuste e quelle sbagliate (buone e cattive) e imparare a
ricordare il proprio figlio in maniera positiva, così da
rinnovare la speranza piuttosto che alimentare la disperazione.
PAURA DI RACCONTARE LA PROPRIA STORIA
Ricordo Pamela, segretaria 47enne di uno studio legale, che
partecipò a uno dei nostri gruppi di supporto per la guarigione
post-aborto. Pamela descrisse la sua decisione di affrontare finalmente
il suo aborto come una decisione di outing. Gli altri membri del gruppo
annuirono in cenno di comprensione, fortemente consapevoli del rischio
a cui le aveva esposte la loro partecipazione al gruppo.
Quando la 29enne Audrey entrò nella sala la
prima sera di un ritiro post-aborto, vide una vecchia amica del liceo.
Sebbene anche la sua ex compagna di scuola avesse avuto un aborto,
Audrey non riusciva a sopportare il fatto che qualcun altro fosse a
conoscenza della sua presenza lì. Si allontanò dal gruppo
e mi disse di non poter restare a causa del suo imbarazzo. Dopo averle
offerto svariati istanti di amorevole rassicurazione, Audrey giunse
alla conclusione che era più se stessa che non riusciva ad
affrontare invece della sua ex compagna di scuola.
Il recupero emotivo dipende dalla
disponibilità a raccontare la propria storia e a permettere che
il dolore si trasformi. Questo implica affrontare sinceramente quanto
accaduto e riconoscere le emozioni che si provano riguardo
l’aborto e il significato che quest’ultimo riveste nella
propria vita, non necessariamente il significato che in questo caso
Audrey vuole dargli, ma il vero significato che l’aborto ha avuto
nella sua vita.
Diventare consapevole del modo in cui l’aborto
ha influito sulla sua vita è fondamentale se questa donna vuole
elaborare le sue emozioni per trovare una risoluzione e la pace. Come
spiegato da Kimberly qui di seguito:
“Avevo paura di pensare al mio aborto
perché volevo rimanere “anestetizzata”. Pensavo che
se ne avessi parlato, tutte quelle emozioni sarebbero venute alla luce
e mi sarei effettivamente resa conto di quello che avevo fatto. Pensavo
che mi sarei sentita peggio di prima. Ora so che queste emozioni devono
essere affrontate, per poterle lasciare andare”.
GLI OSTACOLI SOCIALI
Raccontare la propria storia contribuisce alla guarigione. Ma se non
c’è nessuno disposto ad ascoltare, questo vuol dire che la
storia è stata raccontata per davvero? No.
Noi siamo esseri sociali. La disponibilità o
la riluttanza degli altri ad ascoltare le nostre esperienze luttuose
spianerà la strada verso la guarigione o in maniera più
semplice o in maniera più difficile.
Un’elaborazione del lutto ben riuscita, in
modo particolare nei casi di perdite importanti, implica una componente
sociale. Se condiviso, il dolore è più facile da
sopportare perché non viene tollerato da soli.
È per questo che in tutte le culture esiste
il rito funebre. Mentre il sostegno della famiglia e delle persone care
è ovviamente molto importante, anche le parole gentili e il
supporto di soggetti praticamente estranei può alleviare il
dolore. Perché? Perché nel momento in cui altre persone
riconoscono il nostro lutto, al tempo stesso riconoscono la
legittimità della nostra perdita. Avvalorano i nostri
sentimenti. Quando ci rendiamo conto che altri comprendono la nostra
perdita e s’identificano con essa, non ci sentiamo più
soli. Quando avvertiamo che il fardello del nostro dolore è
condiviso da altre persone, non ci sentiamo più impotenti sotto
il suo peso. La compassione e la presenza solidale di altri che sono
sopravvissuti a perdite simili, ci rafforza per poter elaborare il
lutto che ora dobbiamo affrontare.
Inoltre, abbiamo bisogno di sapere che le altre
persone tengono non soltanto a noi, ma anche ai cari che noi abbiamo
perso. Condividendo il nostro lutto, seppur in maniera minima, il
nostro prossimo dimostra di ricordare e di amare i nostri cari che non
ci sono più, anche se ciò avviene in piccola parte. In
questo modo saranno onorati sia i nostri sentimenti che la memoria dei
nostri cari.
Ma in che modo noi, come società, affrontiamo la perdita che ha a che fare con l’aborto?
Solitamente l’aborto viene percepito come la
scelta compiuta dalla donna, un qualcosa voluto da lei. Un qualcosa che
avrebbe dovuto portare sollievo e non dolore. Come descritto nel
capitolo precedente, l’opinione pubblica non si aspetta che in
seguito a un aborto vi siano sentimenti di dolore, o quantomeno non un
dolore importante. Semplicemente, la maggior parte delle persone non la
considera un’esperienza luttuosa che può essere pari alla
perdita di un consorte o di un genitore. Anzi, molti credono che si
tratti di un’esperienza senza nessun impatto… un
non-evento. Tuttavia, la verità è che la maggior parte
delle donne e degli uomini sperimenta conflitti molto reali nel caso di
un aborto. Sebbene abbiano dato il proprio consenso alla procedura,
detestano quello che hanno vissuto.
Il più delle volte, le donne e gli uomini che
vogliono parlare del lutto in seguito a un aborto, si sentono con le
spalle al muro. Hanno paura di parlare con amici e membri della
famiglia che si professano religiosi o pro-life (NdT: Termine che sta a
indicare chi è favore della vita, sostenitore della vita del
nascituro, antiabortista), perché il pensiero di essere
giudicati li spaventa moltissimo. Ma se tentano di condividere il
proprio dolore con amici pro-choice (NdT: Termine che sta a indicare
chi è a favore della libertà di scelta della donna in
materia di procreazione, favorevole all’aborto, abortista), di
solito si sentiranno rispondere nel modo seguente: “non pensarci
più. È stata la scelta migliore che potessi fare in quel
momento. Non era ancora un bambino vero e proprio. Un giorno potrai
avere un altro figlio”.
Tali dichiarazioni vengono offerte al fine di
rassicurare. Ma coloro che piangono un aborto recepiranno il seguente
significato sottinteso: “Non è stato niente. È
finita e non c’è niente che tu possa fare per cambiare le
cose. Perché devi pensarci? Dimenticatene. Non vale la pena
parlarne”. Dentro queste persone rimane la sensazione che il loro
lutto è irrazionale, irrilevante o persino anormale. Di
conseguenza, molti cercheranno di seppellire il proprio dolore in modo
ancor più deciso.
Ma il problema è proprio questo dolore
sepolto! Vogliono portarlo alla luce, elaborarlo e superarlo. Ma
per fare questo hanno bisogno del sostegno delle persone care. Se una
donna soffre a livello emotivo, la risposta non consiste nel
pronunciare frasi scontate che mettano fine alla conversazione. La
risposta è permetterle di esternare questo dolore. Una
conversazione furtiva ed evasiva può soltanto amplificare il suo
senso di abbandono.
Nell’aborto qualcosa viene perduto. Sia che
questo qualcosa venga chiamato la perdita di un figlio o semplicemente
la perdita di “un’opportunità” di avere un
figlio, la perdita è reale. Deve essere elaborata. Se gli amici
o i propri cari negano questo dolore, il processo di elaborazione del
lutto, infatti, si protrarrà.
“RISPARMIACI I DETTAGLI”
Come società, siamo in grado di discutere la questione aborto
come problema politico, ma non sappiamo come parlarne a livello intimo
e personale. Se ci troviamo di fronte a una persona addolorata per via
di un aborto passato, la maggior parte di noi tende a reagire in modo
imbarazzato, parlando a voce bassa e cercando un modo per cambiare
argomento.
Non esiste nessuna norma sociale per affrontare un
aborto. Non esistono biglietti con frasi di circostanza per gli amici
che hanno abortito, frasi in cui si possa esprimere il proprio
cordoglio o fare le congratulazioni. Non si mandano dei fiori. Non ci
sono né cerimonie gioiose, né cerimonie tristi. Non
abbiamo nessuna usanza sociale che regoli il riconoscimento di un
aborto. Piuttosto, cerchiamo tutti di ignorarlo.
Nei primi giorni successivi a un aborto, una donna,
se fortunata, può essere circondata da amici o familiari
sinceramente comprensivi, solidali e disposti all’ascolto.
Tuttavia, nella gran parte dei casi, tale opportunità dura poco.
Ulteriori tentativi da parte della donna di “rivangare il
passato”, vengono verosimilmente scoraggiati. Troppi dettagli,
troppi rimpianti, troppo dolore, mettono semplicemente a disagio tutti
quanti. Sharon descrive la sua esperienza con gli amici nel modo
seguente:
“Gli amici che sembravano sapere ciò
che fosse meglio per me ai tempi della mia gravidanza indesiderata, ora
sembrano essere spaventati e insicuri di fronte alla persona che
l’aborto mi ha fatto diventare. Se tiro fuori l’argomento,
mi evitano come la peste”.
Quando Tina inizialmente confidò a sua
sorella la sua sofferenza post-aborto, lei la rassicurò
dicendole che aveva fatto la cosa migliore. Tina mi spiegò che
la risposta di sua sorella involontariamente la zittì. Si
sentì incapace di esprimersi oltre
“Se ti penti di aver abortito, nessuno ne vuol
sentir parlare. Dopotutto, non c’è niente che qualcuno
possa fare per risolvere il problema. Perciò devi dire a te
stessa che quello che è successo è stata una scelta
giusta… e tutte le persone che ti circondano ti dicono la stessa
cosa. Dopo quell’episodio con mia sorella, ero sicura che non
avrei mai più affrontato l’argomento”.
Dopo la nascita del suo secondo figlio, Kathy non
riusciva più a trattenere il suo dolore né il suo
segreto. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, così lo disse a
sua madre. Purtroppo, sua madre non sapeva come aiutarla se non
incoraggiando il silenzio ed evitando la questione. Dodici anni dopo il
suo aborto, Kathy si ritrovava a riflettere sull’evento e sul
significato che questo aveva avuto per lei. Quello che segue è
uno stralcio della lettera scritta a sua madre.
“Cara mamma, mi dispiace averti taciuto per tutto questo tempo la
verità sul mio aborto. Ti avevo detto che mi sarei dovuta
sottoporre a un intervento chirurgico di lieve entità…
per un problema femminile. Ti ricordi? E la cosa che mi tormenta di
più è che tu e papà veniste a trovarmi quella sera
in ospedale. Mi portaste un sandwich, nel caso in cui mi fosse venuta
fame. Ero così spaventata. Spaventata all’idea che avreste
scoperto quello che era davvero accaduto quel giorno. Cavolo, se stavo
soffrendo dentro di me! Ed eccovi là, ai piedi del mio letto a
manifestare il vostro amore e la vostra preoccupazione per me. Mamma,
non ti eri accorta che non riuscivo nemmeno a guardarti in faccia? E
nel corso degli anni, non hai notato le volte che mi giravo
dall’altra parte quando si parlava della questione aborto? Riesco
ancora a vedere la tua faccia quando te l’ho finalmente detto.
Otto anni dopo. Tu stavi leggendo il giornale e io tenevo in braccio
mio figlio appena nato. Mi uscì di bocca, tremavo da capo a
piedi. Non mi guardasti, ma io riuscii a vedere la tua gola tesa. Credo
che mi aspettassi che tu mi saltassi addosso dicendo “Come hai
potuto farlo?” Ma tu eri lì seduta tranquillamente e mi
parlasti con dolcezza. Finché avessi mantenuto il mio vergognoso
segreto, saresti stata disposta a farlo anche tu. Volevi che si
arrivasse presto alla conclusione. Volevi che la mia confessione
finisse, per poi non pensarci più. Ma per una frazione di
secondo, solo per una frazione di secondo, mi sono sentita libera. Oh,
quanto avrei desiderato che tu fossi stata in grado di parlarne! Di
piangere insieme a me, di aiutarmi a superare quell’orribile
periodo! Tu sapevi tutto… ma non ne abbiamo mai parlato. Mi sono
sentita così disperatamente sola”.
Il silenzio e l’isolamento che tipicamente circondano
l’esperienza dell’aborto, non lasciano alle donne e agli
uomini alcuno spazio per l’elaborazione del lutto. Non hanno
nessuna strategia per affrontare le proprie emozioni riguardo
l’accaduto. Se avete vissuto quest’esperienza in prima
persona o se una persona a cui volete bene ha avuto
quest’esperienza, non siete soli.
PRAGMATISTI A DISAGIO
Uno dei motivi che ci spingono a non voler parlare del lutto di coloro
che hanno abortito è legato al fatto che noi, come
società, siamo molto turbati dal problema dell’aborto.
Mentre la maggior parte dell’opinione pubblica ritiene che
l’aborto dovrebbe essere legalmente consentito in alcune
circostanze, tanti ne sono anche moralmente turbati. Stando ad un
sondaggio importante, il 77% dell’opinione pubblica ritiene che
abortire significhi eliminare una vita umana, con il 49% che mette
l’aborto sullo stesso piano dell’omicidio. Soltanto il 16%
afferma di credere che l’aborto sia solo “una procedura
chirurgica atta a rimuovere del tessuto umano”. Persino un terzo
di coloro che si descrivono tra i più saldi sostenitori
pro-choice, ammette di ritenere che l’aborto equivalga a uccidere
una vita umana.
Tali conclusioni suggeriscono che la maggior parte
degli americani mette da parte i propri principi morali riguardo
all’aborto, nell’interesse del rispetto “del diritto
di scelta della donna”. Questa rappresenta una scelta pragmatica.
Come società, abbiamo scelto di tollerare le morti di bambini
non nati, con lo scopo di migliorare la vita delle donne.
Tuttavia, questo compromesso morale si spezza quando
le donne parlano dei loro cuori infranti in seguito a un aborto.
Mettono a disagio e disorientano chi le ascolta. Quando il pragmatista
che si sente a disagio, si trova a confrontarsi con il dolore di una
donna in seguito a un aborto, potrebbe avere pensieri del tipo:
“Ma è stata una tua scelta. Io ti sono stato vicino.
Voglio ancora quello che è meglio per te. Vuoi che dica che hai
fatto la cosa sbagliata o la cosa giusta? Se dicessi che hai fatto la
cosa sbagliata, non ti farei sentire peggio? Se era la cosa sbagliata,
forse ho sbagliato a non dirtelo in quel momento? Se quanto accaduto,
non ti ha fatto sentire meglio, ho forse sbagliato ad appoggiarti nel
ritenere che fosse la cosa migliore da fare?”
Il lutto di un aborto passato ci costringe non solo
a guardare al dolore di un individuo, ma all’ansia della nostra
società. Si tratta di una tematica profondamente complessa e
problematica. La maggior parte di noi non vuole guardare troppo in
profondità. È più semplice cambiare argomento.
TIMORE POLITICO
Nel paragrafo precedente, ho descritto alcuni degli ostacoli emotivi
che rendono difficile per le persone ascoltare e consolare coloro che
soffrono per via del lutto post-aborto. Questa situazione viene
ulteriormente complicata dalle correnti di pensiero politico rispetto
all’aborto.
I sostenitori pro-choice sono spesso riluttanti a
riconoscere la realtà del dolore post-aborto, perché
temono che questo significhi dover riconoscere la morte di un bambino,
cosa che in qualche modo potrebbe minare la causa dell’aborto
legalizzato. Kayla ha descritto così il modo in cui la politica
ha intralciato il suo bisogno di trovare un aiuto:
“Ho contattato la clinica dove avevo abortito.
Non conoscevano nessun gruppo di sostegno che potesse aiutarmi ad
affrontare i miei pensieri suicidi. Così contattai la
responsabile dell’Abortion Rights Action Group . Mi disse
che la mia spinta a costituire un gruppo post-aborto non era necessaria
e arrivò persino a insinuare che la cosa avrebbe potuto avere un
impatto molto negativo sulla situazione dell’aborto in generale!
Poi continuò, chiedendomi in che modo avrei gestito la mia
situazione se avessi deciso di tenere il bambino e come mi sarei
sentita ora. Senza che alcun tipo di suggerimento o allusione di
carattere spirituale trapelasse nella mia domanda, affermò in
maniera veemente quanto l’organizzazione fosse fortemente
contraria all’introduzione di ogni forma di
“religione” in questo tipo di sostegno.
Quello che voglio sapere è: che diritto ha
questa donna anziana e stanca di lottare per il diritto
all’aborto per le donne e poi stabilire per loro metodi
attraverso i quali esse possono o non possono affrontare gli strascichi
della loro vittoria ottenuta con tanta fatica?”
Purtroppo, non solo i sostenitori dell’aborto, ma molti
psicologi, psicoterapeuti e counselors sono poco disposti a riconoscere
la vera natura del dilemma della persona in lutto che possono avere
davanti. E questo vuol dire che il loro consiglio alle donne e agli
uomini è inutile, se non addirittura del tutto nocivo. Ad
esempio, su un sito web sponsorizzato da una succursale del colosso
Planned Parenthood , le donne vengono incoraggiate a trattare i
pensieri invasivi relativi agli aborti avuti praticando
intenzionalmente delle tecniche per “mettere sotto il
tappeto” tali pensieri:
“Quando sei sopraffatta da pensieri che ti
turbano, puoi dire o gridare “basta”. Se ti ritrovi a
fantasticare troppo spesso su come sarebbe potuto essere il bambino,
dovresti sostituire quest’immagine con un’altra immagine.
Quella di un bambino che piange perché non avevi tempo da
dedicargli… l’immagine di te che sei arrabbiata, risentita
o stressata per via di quei figli che non eri pronta ad avere”.
Invece di offrire conforto alla donna che soffre la
perdita del proprio figlio, la incoraggiano semplicemente a riaffermare
come “giusta” la decisione presa. In sostanza, stanno
dicendo alle donne che il modo migliore per mitigare il dolore legato
all’aborto è ricordare costantemente a se stesse quanto la
vita sarebbe orribile se i loro bambini oggi fossero con loro.
Voi direste a qualcuno che sta piangendo a un
funerale di provare a immaginare quanto la sua vita sarebbe terribile
se la persona a lui cara fosse sopravvissuta? Tale suggerimento
è controproducente e se messo in pratica, reprimerà e
prolungherà il processo di elaborazione del lutto.
Quando Gretta fu colpita da gravi problemi emotivi
il giorno successivo al suo aborto, telefonò alla clinica,
sperando di poter ricevere aiuto o quantomeno, di essere indirizzata a
qualcuno di grado di offrirglielo.
“Ero molto sconvolta, stavo quasi per
suicidarmi. Quando la mia migliore amica scoprì
l’accaduto, provammo a contattare la clinica in cui avevo
abortito. Mi richiamò un’infermiera; era stata lei a farmi
il colloquio prima del mio aborto. Dopo averle raccontato tutta la mia
disperazione, si mise a farmi la predica sull’importanza
dell’utilizzo dei metodi contraccettivi. Scaraventai il telefono
dall’altro capo della stanza. Ero incredibilmente triste e
arrabbiata, ma non al punto tale da non capire che la sua risposta era
stata imperdonabile.”
Questa incapacità o riluttanza da parte di
molti che fanno i colloqui pre-aborto di affrontare la realtà
del dolore e del lutto di una donna in seguito all’aborto, mi
fa’ venire in mente la telefonata di una certa Noreen, la quale
era venuta a conoscenza del fatto che guidavo dei gruppi di guarigione
post-aborto.
“Lei è pro-choice o pro-life?”,
mi chiese in modo piuttosto deciso. Per un attimo esitai, considerando
un tantino particolare che fosse quello il primo argomento della
conversazione. Noreen insistette. “Ho bisogno di sapere se lei
è pro-choice o pro-life”.
“Io sono una psicoterapeuta”, replicai.
“Aiuto le donne ad affrontare le loro emozioni. Dopo un aborto,
una donna spesso prova molte emozioni che sono difficili da gestire. Io
aiuto la donna ad analizzare il suo stato d’animo riguardo alla
decisione presa e a riconoscere in che modo l’aborto si
ripercuote su di lei”.
Dall’altro capo del telefono, il silenzio.
“Posso aiutarla in qualche modo?”, le domandai.
Noreen rispose con un po’ di esitazione. “Bé,
abbiamo alcune donne che hanno bisogno di aiuto… ma non possiamo
mandargliele se lei le farà sentire in colpa”.
Noreen gestiva i colloqui presso una clinica che
praticava aborti. Incarnava il conflitto di tantissime donne: la paura
che il riconoscere ciò che un aborto ha tolto, peggiori il
problema. Era circospetta, come sarebbe dovuta essere. Avere a che fare
con la realtà degli strascichi del post-aborto non è
un’impresa facile. C’è molta paura ad analizzare
completamente le proprie emozioni. Noreen aveva timore di autorizzare
tale consapevolezza. Tuttavia, la mia formazione di psicoterapeuta,
come quella nel campo della salute mentale in generale, pone
l’accento sul sostegno alle emozioni umane e sulla trasformazione
di processi e comportamenti autodistruttivi. Se una donna piange per la
morte di suo figlio, la cosa migliore che io possa fare è
riconoscere la realtà di quell’esperienza insieme a lei.
Anche se una persona ha voluto abortire, può
comunque esserci una ferita profonda che fa’ male. Spiegai a
Noreen quanto segue: “Posso assicurarle che io non sono
responsabile di come una donna si sente dopo l’aborto. Se una
donna si sente in colpa, io la aiuto a risolvere quei sensi di colpa.
Se prova dolore, io le do il permesso di manifestarlo”.
Noreen insistette. “Devo comunque sapere se
lei è pro-choice o pro-life”, affermò con tono
secco. Restai per un attimo in silenzio, colta da tristezza al pensiero
che quell’ideologia personale avrebbe potuto impedirci di avere
un dialogo e sgomenta all’idea che la dottrina di Noreen aveva il
potere di negare a una donna l’aiuto di cui aveva bisogno.
Era evidente che volesse rispondere ai frequenti
segnali di malessere che vedeva e sentiva. Ma aveva paura di mandare le
donne da qualcuno che potesse riconoscere la loro perdita. Voleva che
fossero aiutate soltanto in un modo che avrebbe rafforzato la
convinzione che l’aborto era stata la scelta giusta. Ma il
processo di elaborazione del lutto non può essere completato
negando la propria perdita o minimizzandone il significato. Molte
donne hanno ben chiaro in mente che l’aborto praticato non ha
rappresentato la semplice eliminazione di un tessuto, ma la
eliminazione del proprio figlio. Eppure, Noreen temeva di indirizzarle
da qualcuno che avrebbe consentito loro di accettare tale perdita
secondo questi termini.
Mi chiesi se una persona come Noreen potesse
comprendere il lavoro che svolgevo in qualità di psicoterapeuta.
Era in grado di capire la dolorosa esperienza di accompagnare una donna
con il doppio dei propri anni che piange in modo incontrollabile la
perdita del proprio figlio, in seguito a un aborto illegale? Poteva
comprendere la marea di emozioni che vengono fuori durante
l’incontro di un gruppo di sostegno post-aborto? Riusciva a
capire la fatica che comportava il dover essere svegliata nel cuore
della notte e lasciare mio marito e la mia famiglia per andare ad
aiutare una donna che meditava il suicidio a causa di un aborto? No.
Per Noreen, difendere la propria ideologia era più importante
che aiutare le donne che potrebbero pentirsi delle loro scelte.
Capisco perché Noreen e milioni di altre
persone come lei possano trovarsi nella posizione di volersi tirare
indietro, di non voler assistere a tali manifestazioni di dolore.
Aiutare qualcuno ad elaborare un lutto di questo tipo può essere
difficile da sopportare. È orribile. Ma proprio come le donne
sottoposte a maltrattamenti o le donne abusate sessualmente, possono
trovare la libertà di andare avanti con la propria vita e
smettere di rivivere i traumi del passato una volta riconosciuto
veramente il problema e fatto i conti con quell’esperienza, la
stessa cosa possono fare le donne e gli uomini emotivamente feriti da
aborti passati. Non potrei mai fare questo lavoro se non toccassi con
mano l’incredibile sensazione di liberazione e forza che
riacquistano coloro che intraprendono il processo di guarigione dopo un
aborto. Si tratta di un travaglio estremamente doloroso, ma che alla
fine porta alla nascita di una genuina integrità e
consapevolezza di sé, caratteristiche queste che spesso vengono
perdute con gli strascichi del trauma provocato da un’esperienza
di aborto.
Noreen mi pose nuovamente la domanda, questa volta
con impazienza: “lei è pro-choice o pro-life? Ho bisogno
di saperlo”.
“Noreen”, le risposi, “io ho constatato che
l’aborto ferisce le donne. Non tutte le donne, ma molte donne. Le
persone che ho imparato a conoscere nel mio lavoro di guarigione
post-aborto, sono donne a cui voglio sinceramente bene e che rispetto.
Provo una grandissima compassione per le donne e per le circostanze
difficilissime che le hanno spinte ad abortire. Le donne non si
rivolgono a me se non hanno bisogno di guarire, a causa delle loro
scelte. Non ricercano la mia assistenza professionale se sono a posto
con la decisione presa. Il mio lavoro consiste nell’aiutare
quelle donne che invece provano un disagio con l’esperienza
vissuta, ad elaborare la propria perdita, per poter andare avanti. Non
sarei una brava psicoterapeuta se dicessi loro che quello che gli
è capitato è stata una cosa positiva e che dovrebbero
essere pronte a rifarlo se necessario, anche se ogni cosa dentro di
loro urla repulsione e umiliazione.”
Noreen rimase in silenzio. Intuii che le mie
osservazioni non l’avevano stupita e avvertii che a livello
più profondo fosse consapevole che non poteva esserci altra
risposta. Coloro che guidano i colloqui prima e dopo l’aborto
hanno visto un barlume della verità. Molte donne sperimentano
reazioni intense subito dopo l’aborto. Alcune iniziano ad avere
reazioni estreme persino durante l’aborto. Se gli operatori dei
reparti per le interruzioni di gravidanza non hanno riconosciuto
queste reazioni come l’inizio del dolore luttuoso, di certo
noteranno i volti assenti, spenti e privi di emozione di alcune donne
che si comportano in modo meccanico durante l’iter della
procedura, che fanno qualunque sforzo per non provare emozioni.
Purtroppo Noreen terminò la nostra
conversazione perché non era in grado di accettare il dolore
delle sue pazienti alle loro condizioni. Le posizioni politiche e
l’ideologia ostacolavano la possibilità di indirizzare
queste donne a una psicoterapeuta che non poteva assicurare di curarle
in un modo che avrebbe favorito una filosofia “pro-choice”.
Lei non poteva accettare il fatto che io avrei permesso alle mie
pazienti di pentirsi dei loro aborti, o addirittura di ritenere che
quegli aborti fossero stati una scelta terribile. Forse, credeva
sinceramente che quelle donne potessero guarire soltanto imparando
finalmente a credere che l’aborto “era la cosa migliore da
fare”. Ma la strada verso la guarigione non si trova reprimendo
le proprie emozioni o convincendo se stessi che una scelta sbagliata
era una scelta valida. La guarigione non dovrebbe essere tenuta in
ostaggio a favore di ideologie “pro-choice”.
LE OMISSIONI DEGLI PSICOTERAPEUTI PROFESSIONISTI
L’interazione tra gli psicoterapeuti e le donne che hanno avuto
l’esperienza dell’aborto è ostacolata da segreti,
paure e pregiudizi politici, tutti inespressi. Non dovrebbe sorprendere
il fatto che a causa delle loro esigenze psicologiche, molti psicologi,
psicoterapeuti e counselors semplicemente non vogliono scavare a fondo
dell’argomento aborto. Quando lo fanno, alcuni preferiscono
rassicurare prontamente le pazienti dicendo loro che hanno fatto la
cosa migliore, escludendo in questo modo ogni sorta di ulteriore
manifestazione di dolore. Ciò avviene perché molti
professionisti omettono di riconoscere le loro stesse paure e ansie che
potrebbero essere evocate da tali conversazioni.
Molti psicoterapeuti sono stati personalmente
coinvolti nell’aborto. Altri hanno incoraggiato le pazienti ad
abortire o hanno dato la loro “benedizione” terapeutica
alla scelta di abortire alle pazienti che stavano considerando tale
possibilità. Spesso tutto ciò viene fatto per ignoranza
delle ricerche nel campo, la quale mostra che le donne con problemi
psicologici preesistenti tendono a stare male dopo un aborto. Non vi
sono prove in base alle quali l’aborto abbia mai migliorato o
alleviato i problemi psicologici. La ricerca indica che è
più probabile che l’aborto complichi ulteriormente i
problemi emotivi di una donna. Mentre alcuni psicoterapeuti potrebbero
essere del tutto ignari di queste indiscusse conclusioni, altri
semplicemente le ignorano o non vi credono, a causa delle loro
motivazioni psicologiche o politiche.
Una volta che un professionista nel campo della
salute mentale ha incoraggiato o approvato un aborto per la paziente A,
potrebbe sentirsi “investito” a difendere l’aborto.
Se in seguito egli consente alla paziente B di scavare a fondo nel suo
lutto post-aborto e nelle patologie a esso collegate, a quel punto
potrebbe vedersi costretto a mettere in discussione i consigli dati
alla paziente A. Potrebbe istintivamente guardarsi dall’assistere
a un’intensa reazione post-abortiva, perché
quest’ultima potrebbe suscitare in lui il senso di colpa per aver
dato alla paziente A un consiglio sbagliato.
Julianne descrive la sua esperienza con la propria psicoterapeuta come segue:
“Dopo l’aborto, non riuscivo a smettere
di piangere. Andai dalla psicoterapeuta che mi aveva incoraggiato ad
abortire. Piansi per tutto il tempo. Lei era seduta davanti a me, con
uno sguardo assente. Non disse nulla. Durante la seduta era lontana,
distaccata… emotivamente fredda e chiusa.
Mentre stavo uscendo dal suo studio, mi raggiunse e
disse: “di solito non tocco le mie pazienti, ma tu hai
l’aria di chi ha bisogno di un abbraccio”. Poi, mi
abbracciò e mi strinse. Ebbi la sensazione di essere abbracciata
da una presenza malvagia. Rabbrividii quando mi toccò. Ma come
osava avvicinarsi a me! Un abbraccio! Ero disgustata al pensiero di un
tale gesto… dopo che mi aveva incoraggiato a uccidere mio figlio!
Mai una parola di sostegno per la mia
maternità! Mai una soluzione alternativa né una risorsa
che potesse aiutarmi. Sapeva che non volevo abortire di nuovo. Mi aveva
detto di abortire perché non sarei stata in grado di gestire un
altro figlio!
E poi mi offrì un abbraccio.
Dio, quanto mi manca il mio bambino. È lui che volevo
abbracciare… mio figlio, che adesso non c’è
più, mio figlio che non abbraccerò e non coccolerò
mai!”
Se la psicoterapeuta ha personalmente vissuto un aborto, molto
probabilmente l’ammissione del dolore da parte di una paziente
incontrerà o un muro di rifiuto o un altro ginepraio di problemi
irrisolti. Qui di seguito, la testimonianza di un’altra delle mie
pazienti, Hanna, lei stessa psicoterapeuta:
“Credevo di essermi messa alle spalle le mie
esperienze. Ero assolutamente impreparata all’insorgere delle
emozioni scatenatesi ascoltando una delle mie pazienti che parlava del
suo aborto. A volte mi sembra di aver aperto la scatola di Pandora e
che la mia vita non tornerà mai più a essere normale.
Ricordi che non sapevo esistessero riemergono nei momenti più
inopportuni. Le mie ore di sonno sono tormentate da incubi vividi.
Oscillo tra la sensazione di avere finalmente il controllo e la
sensazione di essere completamente fuori controllo. Come professionista
mi sforzo di trovare un ponte di collegamento che mi consenta di
integrare la mia competenza professionale con il mio trauma personale.
‘Dottoressa, guarisci te stessa!’ So che il momento di
riconciliarmi con questa situazione è adesso e che non è
un caso. Sono arrivata a questo bivio”.
Fortunatamente Hanna ha riconosciuto i suoi sintomi che chiedevano a
gran voce attenzione e ha deciso di farsi aiutare. Era disposta ad
affrontare il trauma che per molti anni era riuscita ad allontanare con
successo, ma che non aveva mai realmente elaborato.
OPPORTUNITA’ MANCATE
Nella vita di Kasey ci sono stati molti esperti professionisti che
hanno avuto la possibilità di aiutarla, ma non l’hanno
capita, l’hanno zittita oppure ignorata.
“Ricordo che la mia insegnante mi prese da
parte e mi disse che secondo lei ero una tipa un po’ stramba. Una
settimana dopo mi disse che aveva letto la mia cartella clinica e la
mia anamnesi che erano state spedite alla scuola. Apprese che avevo
abortito. Non dimenticherò mai quello che provai in quel
momento. Mi sentii assolutamente sconvolta e umiliata.
Tuttavia, al tempo stesso provai una strana
sensazione di sollievo, perché il mio segreto non era più
tale. Avvertii che quella donna si preoccupava per me ed ero sollevata
che qualcuno avesse riconosciuto la fonte del mio dolore. Scoppiai in
lacrime e le dissi quanto fosse stato terribile. Le raccontai tutto
quello che avevo passato. Che ero stata smascherata, messa a nudo e poi
lasciata sola ad affrontare la mia vergogna.
Poi, dopo averle raccontato tutto, lei mi disse in modo risoluto di
rimettermi in sesto… punto e basta. Quel suo atteggiamento quasi
mi mandò fuori di testa”.
Kasey voleva una figura materna che le offrisse comprensione e
sostegno. Anche se inizialmente terrificante, la scoperta da parte
dell’insegnante di Kasey del suo aborto, aveva al tempo stesso
rappresentato per lei un momento di speranza. Purtroppo, si
sentì dire semplicemente: “tirati su”. A quel punto
Kasey si sentì completamente abbandonata e il suo trauma prese
il sopravvento. Fu incapace di elaborarlo, perché non
c’era nessuno che potesse aiutarla. Alla fine ebbe un esaurimento
nervoso.
Durante il suo ricovero, Kasey informò
svariati medici e psicoterapeuti che i suoi problemi iniziarono dopo
l’aborto. Nonostante le sue spiegazioni, nessuno considerò
l’aborto come un problema che necessitasse di assistenza
psicologica. Tutti ignorarono la questione dell’aborto,
considerandola irrilevante.
“Mi curarono con i farmaci: tranquillanti,
antidepressivi e medicinali contro l’ansia. Fu così che
gestirono il mio lutto e il mio dolore. Mi trasformarono in uno
zombi”.
Per sei anni Kasey fu curata con i farmaci e
considerò se stessa un “caso psichiatrico”. Ma dopo
aver affrontato un profondo lavoro di elaborazione del lutto collegato
al suo aborto, riuscì a ristabilirsi completamente.
Purtroppo la sofferenza di Kasey si è
protratta inutilmente, perché le persone che le erano accanto e
soprattutto i professionisti nel campo della salute mentale non
sono stati in grado o non si sono mostrati disposti ad assisterla
nell’affrontare il suo aborto, per lei un’esperienza di
lutto traumatica. Per quanto tempo ancora ad altre donne e altri uomini
verrà negato il permesso di elaborare il lutto di aborti passati?
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Tratto da "Forbidden Grief: The Unspoken Pain of Abortion"
Copyright 2002 Theresa Burke and David C. Reardon
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Ringraziamo di cuore Chrisula per la traduzione.
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A volte l'esperienza di un aborto può creare intense emozioni
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© 2009-2016 Monika Rodman, Vigna di Rachele/Rachel's Vineyard Ministries™. Tutti i diritti riservati.
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Introduzione -
Capitolo 1 - Capitolo 4 - Capitolo 7 NEW!!
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